-2- LE SENTENZE DI CONDANNA PER “TERRORISMO ISLAMICO” Tra Trucchi Dialettici e Suggestioni Mediatiche – seconda parte –

Pubblicato: ottobre 14, 2009 in Terrorismo islamico in Italia
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LE CONDANNE PER  “TERRORISMO ISLAMICO”

TRA TRUCCHI DIALETTICI E SUGGESTIONI MEDIATICHE

– SECONDA PARTE –

IL SISTEMA DELLE REFERENZE DELLE PRECEDENTI SENTENZE: VALORE, SIGNIFICATO E LIMITi DEL “GIUDICATO”.

Le aberrazioni cui si perviene partendo da certi presupposti e seguendo certi sviluppi che abbiamo avuto modo di esaminare nella prima parte del presente articolo relativamente all’art. 270bis del codice penale (associazione di natura, scopo e finalità di terrorismo) non si esauriscono in quelle che abbiamo esaminato. Ad esse si aggiunge il peso del cosiddetto “pregiudicato”.

Che cosa si intende con ciò?  Allorché si abbia a che fare con un fenomeno di vasta portata come può essere la mafia o il terrorismo, è presupposto logico che molte persone, anche non in diretto contatto tra di loro, siano colpite dalla stessa accusa. Questo vuol dire che, in tempi diversi ed in ambienti diversi, possono essere arrestati vari gruppi di imputati ai quali viene contestata la stessa cosa, cioè, di aver costituito o di far parte di un’associazione terroristica della stessa natura e ispirata dallo stesso movente ideologico. Allorché si riesca ad ottenere la condanna di un gruppo, sia essa ottenuta attraverso un “patteggiamento” o un “giudizio abbreviato”, quella sentenza, allorché divenga definitiva, potrà essere acquisita agli atti di tutti i processi analoghi, ad esempio, di “terrorismo islamico” per essere fatta valere contro gli imputati di un nuovo processo contro un nuovo gruppo di imputati che, all’occorrenza, non abbiano neppure mai avuto contatti tra di loro e neppure si conoscono. In questi casi, l’Accusa potrà anche avanzare la pretesa che il nuovo processo in corso contro gli imputati di turno sia estremamente rapido, quasi formale, essendo certi accertamenti già stati compiuti nell’altro processo svoltosi in altro luogo, magari a distanza di anni, contro altri imputati, in quanto quello costituirebbe prova di colpevolezza anche contro gli attuali imputati.

Secondo i casi che ci si trovi di fronte a giudici attenti e preparati o a sornioni che cercano scorciatoie per rendere più facile il loro lavoro e la stesura delle sentenze, la cosa può condurre a conclusioni completamente diverse, fino alle più ingiuste condanne di innocenti.  Questo tanto più se l’incompetenza del giudicante si associa alla furbizia dell’Accusa che coglie lo smarrimento, la fragilità emotiva ed il limite intellettuale del primo. In questo caso il giudicante può veramente finire col credere che non occorra altro che fare una copiatura, previo un minimo di adattamento, delle sentenza prodotta, al caso in esame.

Su questa facoltà di produzione si è molti giocato in questi processi e viene bene da chiedersi se le aberrazioni avvengono sempre e soltanto, come ritengono gli ottimisti ad oltranza, perché si tratta sempre di ignoranza, di incompetenza, di mancanza di disponibilità da parte di questo o quel magistrato ad approfondire le cose trovando più agevole appiattirsi sopra un’accusa che contiene già una facile traccia, già spianata, per la motivazione di una sentenza di condanna, piuttosto che avventurarsi a seguire una logica difensiva sulla base della quale smontare l’apparato accusatorio già più facilmente riassunto nella richiesta di applicazione della misura cautelare del Pubblico Ministero, sempre presente in questi casi, e nell’ordinanza di accoglimento del G.I.P. che costituisce una sorta di “pre-sentenza” facile da ricalcare.[1]

E’ immaginabile quale risultato pratico possa ottenersi non soltanto nella sfera giudiziaria che è strumentale e funzionale ad un risultato ben più vasto che appartiene al campo politico e militare ma anche a quel più vasto progetto di attacco globale contro tutte quelle realtà culturali e quelle identità tradizionali che vengono considerate come un ostacolo al processo di globalizzazione e di omologazione culturale secondo gli schemi di una civiltà materiale e mercantile.

Ne’ deve credersi che quest’ultima affermazione sia esagerata; in effetti, con la giustificazione che in certe disfunzioni ed aberrazioni entrino sempre e soltanto in gioco questioni di incompetenza, di poca voglia di impegnarsi e di lavorare, di qualcosa insomma che in fondo è riconducibile alla spiegazione più banale, è ben riduttivo e si trascura l’aspetto più inquietante che è dietro certi fenomeni ed aberrazioni.  E’ pur vero che non sempre e non tutti i fatti e le persone che sono strumenti attraverso i quali si realizzano ingiustizie ed aberrazioni sono da ricondurre ad una consapevolezza, ad una mala fede, o a qualcosa che abbia a che fare con “complotti” o interessi di parte. Anzi è più vero che per la stragrande maggioranza dei casi e delle persone vale effettivamente la drammatica conclusione che si tratta di ignoranti, di fannulloni e non di rado di  “utili idioti” e di “perfetti cretini”.  Non mancano neppure i casi in cui è presente qualcuno che capisce al volo che il caso si presta a fornire l’occasione giusta per una buona pubblicità, per dare una spinta alla carriera, per assecondare quello che il momento richiede traendone un facile risultato; ma la presenza di questi indubbi elementi umani non deve oscurare o impedire la consapevolezza di qualcosa di molto più profondo che è sempre presente in questi casi dove è questione di interessi politici e militari, di presunta “sicurezza”.

Niente avviene mai a caso; nessun effetto si produce soltanto perché vi si prestano utili idioti o interessati.  Coloro che sanno esattamente la finalità di certe premesse, che predispongono le cose affinché si giunga a certi risultati, sono sempre pochissimi e generalmente collocati  molto lontano dagli effetti; tutti gli altri sono esecutori a qualunque livello si collochino. L’importanza degli esecutori, a qualunque livello si collochino, non è mai decisiva ma sempre strumentale e il livello di consapevolezza può al massimo raggiungere la sensazione e quel tanto che basta ad indurli a non approfondire ed a seguire prudentemente e convenientemente l’onda del momento. Ma già qui siamo ad un livello, sia pur minimo, di capacità intellettiva, di astuzia e di attività: la stragrande maggioranza anche degli operatori, è completamente mossa dagli automatismi del sistema e riporta a cause astratte, a ragioni irrazionali e a fattori umani i più banali possibili, la causa del malfunzionamento, o al contrario, del “funzionamento” di certe cose.

Detto questo, riprendiamo l’argomento principale del “pregiudicato” e del suo effetto nei processi di “terrorismo islamico”.

Può accadere, ed è effettivamente accaduto, che tra un gruppo di imputati di uno stesso processo (parliamo ovviamente di quelli per “terrorismo islamico”), alcuni di essi scelgano il “giudizio abbreviato” chiedendo di essere processati e giudicati anziché davanti ad una Corte composta da 8 persone (due magistrati togati e sei giudici popolari) immediatamente dallo stesso G.u.p. (giudice dell’udienza preliminare) che sta tenendo “l’udienza preliminare” per decidere se “rinviare a giudizio” davanti alla Corte o prosciogliere in quella sede, “allo stato degli atti”, cioè, senza istruttoria dibattimentale, accettando le prove a carico prodotte dalla Pubblica Accusa, le Relazioni accusatorie della polizia giudiziaria; rinunciando all’interrogatorio degli operanti, prendendo per buono ciò che hanno dichiarato nelle relazioni scritte al Pubblico Ministero e rinunciando alla verifica sotto giuramento e sotto interrogatorio di quelle relazioni e delle testimonianze accusatorie rese negli atti istruttori del Pubblico Ministero; accettando, infine, la traduzione delle intercettazioni rese dalla Digos o da un perito del Pubblico Ministero. In parole povere: mettendosi totalmente nelle mani della Pubblica Accusa e chiedendo al giudice di giudicare soltanto sulla base di quegli atti senza verifica dibattimentale.

E’ pur vero che questa scelta, definita “premiale” in quanto consente una riduzione dell’eventuale condanna di un terzo, viene fatta o quando l’imputato riconosce che non ci sono troppi elementi di favore e la condanna potrebbe essere quasi sicura anche con il “rito ordinario” (in questo caso, di fatto, è come se facesse una specie di “confessione tacita” al pari del “patteggiamento” della pena  – altro rito cosiddetto  “premiale” – ) oppure quando l’imputato (ed il suo difensore) sono convinti che agli atti non ci sono elementi validi per una condanna e che al giudice apparirà evidente ciò per cui il dibattimento potrebbe persino diventare rischioso consentendo una spiegazione degli atti d’accusa più ampia che potrebbe colmare la lacuna probatoria dello stato degli atti ma, soprattutto nei processi di “terrorismo islamico”, implica un tremendo rischio date le alterazioni, le gonfiature, le esagerazioni o le frodi che, piccole o grandi, sono state quasi sempre presenti in questo genere di processi e presuppone soprattutto che il giudicante sia dotato di un acume, di una preparazione oltre che di un coraggio e di un’onesta intellettuale non comune che non è facile trovare. Ed infatti raramente si evita una condanna soprattutto quando il giudicante, inesperto in materia ed impressionato dalla natura del reato e dall’allarme sociale oltre che portato da una tendenza caratteriale, si dispone volentieri ad una remissività che a volte appare persino “servizievole” se non addirittura “servile”, nei confronti della Procura.

In questi casi avviene che nella stessa udienza il G.U.P. “condanna” immediatamente  quelli che hanno scelto il “rito abbreviato” e “rinvia a giudizio” davanti alla Corte d’Assise gli altri che hanno scelto il “rito ordinario”.

Orbene, nel motivare la condanna, il G.u.p. non potrà prescindere dall’esame della posizione degli altri imputati che non sta giudicando perché le posizioni del gruppo, trattandosi di un’accusa di “associazione” sono generalmente comuni. Anzi, può accadere che la colpevolezza degli imputati giudicati con il “rito abbreviato” derivi proprio dalla colpevolezza di quelli che devono ancora essere giudicati con il “rito ordinario” ed allora il G.U.P. non investito del giudizio contro questi ultimi, dovrà necessariamente dichiarare nella sua sentenza che emerge chiaramente la responsabilità di questi ultimi per poter dichiarare coinvolti nella stessa responsabilità gli imputati che ha giudicato lui e poterli dunque condannare.  Questo diventa ancor più obbligato quando una delle principali prove d’accusa viene considerata la “referenza negativa” della frequentazione e dei colloqui, ad esempio, tra un imputato che viene processato con il “rito abbreviato” ed un altro  che deve ancora essere processato con il “rito ordinario”.  Il G.U.P. seguendo la sua convinzione, la sua logica, il suo modo di sentire ed intendere frasi, parole e sentimenti, pronunciate ad esempio da uno degli imputati ancora da processare, condannerà l’altro sulla base del fatto che le ha ascoltate o condivise con quello che deve ancora essere giudicato; e nel fare ciò, giudicherà quelle frasi prova evidente della colpevolezza; prova evidente di un programma criminoso e di un progetto terroristico che i due stanno predisponendo. Anzi potrà benissimo accadere (ed è accaduto ad esempio nel processo “Bourhama Yamine + 4 a Napoli) che il G.u.p. attribuirà la maggior responsabilità delle frasi (magari proprio perché è lui che le ha profferite mentre l’altro si è limitato a condividerle o a non condannarle) proprio all’imputato che deve ancora essere processato con il “rito ordinario”. Ed allora si verifica l’aberrazione che, nella sentenza di condanna degli imputati che hanno scelto il “rito abbreviato” è contenuta l’esplicita, dichiarata (anche se non formalmente ratificata)  “condanna preventiva”, dell’imputato che deve ancora essere giudicato dalla Corte d’Assise.

La cosa può non presentare un problema finchè la sentenza di condanna del “rito abbreviato” non è diventata definitiva; ma allorché lo divenga, il problema si fa serio e la soluzione è veramente affidata soltanto alla capacità del giudicante di capire il senso ed il limite di un “giudicato” che ha trattato casi collaterali a quello ancora in esame.

Ovviamente se il caso trattato precedentemente si è svolto anch’esso con il “rito ordinario” ma qualcosa ha impedito che tutti gli imputati di uno stesso gruppo potessero essere processati insieme, è più evidente che la sentenza di condanna diventata definitiva possa essere prodotta nel giudizio in corso come “precedente”, come “giudicato” ma anche qui ciò trova un limite perché, altrimenti, non ci sarebbe neppure bisogno di fare il processo agli altri imputati; tanto basterebbe la sentenza precedente ed applicarla a tutti indistintamente. Ne’ l’accertamento può ridursi soltanto a valutare la responsabilità dei singoli soggetti. Per fare un esempio pratico, si consideri una sentenza definitiva che dichiara che risulta provato che tra gli imputati ed altri non presenti nel giudizio esisteva un vincolo associativo di natura terroristica e per l’effetto condanni gli imputati. La produzione di tale sentenza definitiva nel processo in corso a carico degli altri imputati restati estranei al primo ma indicati come sodali nella precedente sentenza, secondo alcuni si dovrebbe dare ormai per scontato e non più soggetto di accertamento, in quanto sul punto si sarebbe ormai formato il “giudicato formale e sostanziale” che il vincolo esistente tra il gruppo è di natura “associativa” e “terroristica” per cui rimarrebbe da giudicare soltanto il punto riguardante le singole posizioni degli imputati nel senso se, effettivamente, il loro legame con gli altri, già condannati, era di natura intima tale da potersi considerare non soltanto occasionali frequentatori ma sodali essi stessi.

Questa posizione escluderebbe, dunque, secondo questa posizione estrema ed assolutista che il nuovo giudice possa avere una convinzione sua propria, un’evidenza sua propria, diversa o addirittura opposta a quella che ha avuto l’altro giudice tanto che, anche se il primo fosse addirittura stato in perfetta mala fede ed avesse inventato prove e costruito congetture riuscendo a trascinare nell’inganno anche i giudici dei gradi successivi (d’appello e di legittimità) o fosse stato così idiota da convincere se stesso e gli altri, si dovrebbe accettare il “giudicato” anche contrariamente ad ogni evidenza contraria.

Tanto più il limite del valore del “giudicato” sul processo ordinario in corso dovrà essere considerato se quel giudicato è frutto di una sentenza scaturita sulla base di un “rito abbreviato”.  Questo è evidente anche ai bambini; eppure molti giudici fanno fatica addirittura a capirlo. Ne abbiamo avuto prova ed allora non si sa veramente che cosa pensare.

Questa assolutizzazione del principio del “precedente” e del “giudicato sul punto”, conduce a conseguenze aberranti e a situazione da trappola.  Infatti, se come è accaduto in certi casi (ad esempio sempre il caso del processo al “gruppo Bourhama+5” innanzi alla Corte d’Assise di Napoli, stralcio della più ampia indagine che ha condotto dinnanzi ad una diversa Corte d’Assise (quella di Venezia) altri tre imputati sulla base delle stesse intercettazioni telefoniche, delle stesse frequentazioni, degli stessi soggetti e delle stesse argomentazioni accusatorie, la Corte di Napoli condanna i cinque imputati affermando che le intercettazioni provano in modo inequivocabile che gli imputati, insieme a quelli di Venezia, stavano progettando in Italia attentati e stragi o fornivano supporto logistico a sodali dell’ex G.I.A. e del Gruppo Salafita di P. e C., mentre la Corte di Venezia assolve gli altri tre affermando che quelle stesse intercettazioni sono assolutamente indicative di un assenza di progettualità terroristica, quale delle due sentenze quando saranno definite entrambi dovrà considerarsi come “precedente” e come “giudicato” laddove dovesse svolgersi un ulteriore processo a carico di altri imputati inseriti nella stessa operazione e nella stessa inchiesta?

Il problema non è teorico ma drammaticamente pratico se si pensa che si è posto proprio nel processo del quale abbiamo or, ora, fatto cenno. Anzi, in questo processo, addirittura si è preteso che la sentenza del G.U.P. del Napoli, confermata dalla Corte d’Assise d’Appello di Napoli, frutto del “giudizio abbreviato” e passata in giudicato, prevalesse sulla sentenza ugualmente frutto di “giudizio abbreviato” del Gup di Venezia e della Corte d’Assise di Appello di Venezia, passata del pari in giudicato, perché quella di Napoli costituirebbe un “giudicato” più forte di quello di Venezia!?  Perché? Perché la prima si è formata nei confronti di due imputati facenti parte del gruppo dei cinque processati a Napoli mentre l’altra faceva parte del gruppo dei tre processati a Venezia!  A nulla varrebbe che i due giudicati si applicano con giudizi diametralmente opposti sulle stesse, identiche prove e fonti di prova: sulle frasi delle stesse intercettazioni!

E’ dunque evidente come, prescindendo anche da questo caso specifico che genera effettivamente una “situazione paradossale” dove a maggior ragione si evidenzia la necessità di un’autonomia di giudizio che sia svincolato da entrambi i giudicati (o, operando una scelta, la motivi dicendo perché, ragioni campanilistiche a parte, l’una argomentazione sarebbe più giuridica, più attendibile e più razionale dell’altra),  i “giudicati”, quando si tratti di qualcosa che attiene all’interpretazione di una serie di elementi indiziari, non possano e non debbano avere che un valore “indicativo” e non già assolutamente vincolante per il giudice che si trova a svolgere un determinato processo. Che una serie di elementi indiziari abbia condotto un giudice a concludere che questi sono sufficienti a far presumere con un buon margine di probabilità vicino alla certezza che gli imputati sono collegati funzionalmente ad un gruppo terroristico più vasto, non può impedire ad un altro giudice che svolga un processo parallelo, di interpretare quegli stessi elementi come insignificanti perché non è questo il punto che costituisce l’essenza di un “giudicato” che possa inibire ad un giudice un suo proprio giudizio in un parallelo processo.

Eppure nei processi per “terrorismo islamico” si tenta sempre questa carta; ma se i giudici fossero sempre capaci di sapere quali sono i “limiti del giudicato” e di capire che la possibilità che si verifichi anche un “contrasto di giudicati” costituisce proprio la garanzia di un serio e giusto processo e lo stimolo verso un approfondimento del senso del diritto, certe aberrazioni con le relative, mostruose, ingiustizie si eviterebbero.

L’esito in Corte d’Assise d’Appello di Napoli, del processo Bourhama + 2, in corso, si fonda su questa ambiguità dialettica tentata dalla Pubblica Accusa.

Avv. Carlo CORBUCCI


[1] Abbiamo avuto occasione di constatare che in certi processi si arriva al paradosso (ad esempio il caso napoletano “Bourhama + 4”)  dove la sentenza di condanna del Gup riporta letteralmente interi stralci della richiesta del P.M. (senza ovviamente dire che sono considerazioni del P.M. condivise e condivisibili, il che sarebbe normale, ma come se fossero prodotti personali del ragionamento dello stesso Gip, tanto da suscitare il sospetto che la sentenza sia avvenuta sopra lo stesso “file di lavoro” della Pubblica Accusa.

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