SUPERATO IL LIMITE DEL 270 BIS C.P. SULLA NECESSITA’ CHE IL “PERICOLO” INERISCA L’AZIONE E NON IL PENSIERO ED IL SENTIMENTO: D’ORA IN POI E’ ISTIGAZIONE O APOLOGIA DI TERRORISMO ANCHE CONDIVIDERE L’IDEOLOGIA (O IL MODO DI CONCEPIRE LA RELIGIONE) DEGLI ACCUSATI DI TERRORISMO.

Capitolo tratto dal libro

“Il terrorismo islamico: mistificazione senza realtà?”

di Carlo Corbucci

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Nel corso dell’esame dei casi giudiziari di presunto “terrorismo islamico” risoltisi con sentenze di condanna, abbiamo avuto modo di verificare non soltanto attraverso quali aggomitolamenti dialettici certe sentenze arrivino a stabilire la colpevolezza di vari gruppi di imputati ma anche come, quando a ciò vengano costrette dal rigore delle argomentazioni e delle eccezioni delle Difese, soprattutto negli ultimi tempi abbiano infine ripiegato su ammissioni che, almeno nelle prime sentenze di condanna, non venivano mai fatte allorché lasciavano invece volentieri in quell’equivoco che abbiamo spesso evidenziato: l’equivoco di far credere o lasciar credere all’opinione pubblica già a ciò preparata dai “mass media”, che gli imputati condannati erano stati riconosciuti colpevoli, esattamente delle accuse riportare nei suggestivi “capi di imputazione”, cioè, attentati, stragi, attività terroristiche, ecc.

Soltanto allorché il trucco cominciava ad emergere e le contestazioni difensive espresse nei vari Motivi d’Appello costringevano le Corti a fare distingui e chiarimenti, le sentenze dovevano finalmente dare atto che i processi in questione non avevano lo scopo di dimostrare che il gruppo di imputati in processo erano accusati o colpevoli di aver effettivamente compiuto stragi o di star predisponendo atti mirati a compiere stragi; ne’ che ci si trovava di fronte a persone “colte nel sacco” ed in procinto di commettere qualche attentato, come pur le prime inchieste apertamente dichiaravano all’opinione pubblica. Da un certo momento in poi, le Corti erano finalmente costrette a chiarire, dandovi il più ampio rilievo, che il reato previsto dall’art. 270 bis c.p. non chiede tutto questo e non presuppone affatto tutte queste prove essendo sufficiente qualche riscontro al sospetto che un gruppo possieda una potenzialità sufficientemente pericolosa.

Questa è finalmente un’ammissione che ha il merito della chiarezza e che non consente speculazioni anche se continua a raggiungere quello che probabilmente era uno degli scopi di certe operazioni: quello di “terrorizzare” e di indurre soggetti troppo curiosi e troppo solidali sul piano ideologico con le ragioni della resistenza dei Paesi arabi o dei movimenti politici conservatori di ispirazione islamica, a tenersi lontani dalle informazioni sugli esiti interni delle campagne militari, sulle ragioni diffuse dai vari gruppi attraverso i canali di divulgazione mediatica e a scoraggiare eccessive solidarietà che disturbino l’informazione ufficiale e convenzionale sui fatti di terrorismo e sulle origini e sulle cause reali di certi fenomeni.

E’ ormai chiaro che la cosiddetta “legislazione di emergenza”, a scopo preventivo ed “a tutela anticipata”, era ed è in realtà un sistema per colpire le idee ed i sentimenti ritenuti scomodi; ma poiché un sistema la cui vetrina di esposizione sono la “democrazia” e la libertà, non si può apertamente proibire la professione di determinate idee e la condivisione di sentimenti, anche quando essi siano la negazione del sistema stesso, se non a condizione di contraddirsi e di negarsi, è evidente che la “Giurisprudenza di Legittimità” (cioè quella della Cassazione) sia formalmente costretta a fissare, almeno astrattamente, principi che svolgano un ruolo quanto meno di facciata.

Ecco allora che Cassazione sembrerebbe porre dei limiti all’applicazione del 270 bis laddove precisando che non è necessario che si verifichi l’evento temuto; che non è necessario che gli imputati abbiano stilato un programma ed un progetto precisi essendo sufficiente che possiedano un minimo di offensiva deducibile da vari elementi, precisa però ulteriormente che è tuttavia pur sempre necessario che quel minimo di potenzialità effettiva sussista veramente perché, diversamente, si rischierebbe di colpire espressioni del pensiero che trovano tutela proprio in quell’ordinamento che pur i soggetti ideologicamente osteggiano.

In parole povere l’elemento di discriminazione tra il “penalmente rilevante” ed il “penalmente irrilevante” è costituito dal passaggio dalla sfera del pensiero e del sentimento a quella dell’azione. Anche l’azione però, si ha cura di precisare, deve avere un minimo di offensività, essere cioè fuori dalla sfera del consentito ed essere realisticamente indicativa di una volontà di tradurre in atto ciò che nel pensiero può essere ancora lecito, cioè, di fare un’opposizione al sistema in termini di violenta, agire nel verso di rovesciare l’ordine costituito o compiere azioni di violenza di natura terroristica o tali considerate dagli accordi internazionali.

Che lo scrupolo e l’indicazione dei limiti di separazione tra il pensiero, il sentimento, il “penalmente irrilevante” (magari anche se moralmente e politicamente “immorale”) e la prima manifestazione dell’azione che segnerebbe il passaggio al “penalmente rilevante”, alla violazione, al reato vero e proprio, sia soltanto strumentale, una copertura di facciata per far salve le apparenze democratiche, è dimostrato dagli effetti pratici che si producono nei processi.

Che cosa avviene infatti?  Una volta inquadrati gli imputati nell’ambito di un’ideologia che rifiuta certe scelte che il sistema definisce “democratiche” (ad esempio: la deliberazione di invadere Paesi considerati antidemocratici e di portavi la democrazia); una volta dimostrato che l’ideologia degli imputati rifiuta ed osteggia certi ideali che si ritengono fondanti della “civiltà occidentale”; una volta che venga dimostrato che essi disprezzano le scelte del sistema e ne auspicano la crisi, la caduta, la disgrazia, il giudicante non si pone nella disponibilità di verificare se tutto questo appartenga alla sfera del sentire, del pensiero, del sentimento e dell’emozione, ma si pone quasi accanitamente alla ricerca di quegli elementi che possano ritenersi indicativi nella vita pratica dei soggetti e nell’azione, di quel passaggio dalla sfera ideale a quella dell’azione colpevole.

Si rovescia così il principio generale del diritto penale: non la prudenza di vedere se si stia per colpire il libero esercizio della facoltà mentale e della libertà interiore del soggetto inquisito ma la ricerca del  “come”  possa essere dimostrato che gli imputati sono effettivamente passati dalla sfera del “sentire” a quella dell’”agire” e poi, “come” questo agire possa essere fatto rientrare nella categoria del “penalmente rilevante”.

Quest’attività diventa una vera e propria “caccia grossa” che a volte assume i tratti di un accanimento scopertamente, se non addirittura spudoratamente evidente, di certe presidenze delle Corti d’Assise, maggiore addirittura di quello di certe Pubbliche Accuse.

La pratica giudiziaria insegna che, una volta impostate le cose con questi presupposti, non è difficile creare una confusione tale che la sfera del pensiero e del sentimento possano farsi passare per “azione” e poi per “azione penalmente rilevante”.  Anzi, può ben capirsi quanto sia facile, una volta raccolta una mole di materiale (libri e scritti) di forte critica al sistema ed una volta incollati a personalità sicuramente non inquadrabili nella categoria dei comuni soggetti rintracciabili negli schemi massificati dei patiti del pallone, della moda e delle discoteche, far passare certi comportamenti anticonformisti, anche i più innocenti possibili, per fasi propedeutiche o atti preparatori di un passaggio all’azione.

Ed è proprio sull’attività di rendere confusa l’azione che si concentra la Pubblica Accusa e che sulla quale si ingegnano certe Corti laddove vogliano ad ogni costo giungere ad una sentenza di condanna.

Questo spiega perché, le Pubbliche Accuse nelle requisitorie finali all’esito del processo, sono finalmente costrette a fare un improvvisa virata passando dal tono allarmistico tenuto nella fase indagini (con il supporto della stampa) ad un tono di ammissione dove quasi tutta la requisitoria si esaurisce nel far capire alle Corti popolari che non è richiesta alcuna prova; che non è richiesto che gli imputati abbiano mai messo in opera comportamenti mirati a compiere atti terroristici, azioni violente o che altro perché il 270 bis è un “reato di pericolo” a “tutela anticipata” e non un reato che colpisce azioni specifiche.  Infatti, allorché dall’intera istruttoria non è emerso nulla che possa evidenziare i gravi riferimenti alle intenzioni stragiste ma soltanto frasi e sentimenti, sfoghi e rabbia, come si può motivare una richiesta di condanna per quello specifico capo di imputazione?  Non altrimenti che facendo capire alla Corti popolari che questo non è richiesto dalla norma che anticipa il pericolo e punisce il potenziale non l’effettivo. A quel punto, le precisazioni di Cassazione che invitano le Corti a verificare che un minimo di potenzialità effettiva riconducibile all’azione ci sia affinchè non si rischi soltanto di colpire espressioni, per quanto forti e fanatiche, del pensiero, non hanno alcun valore se i due giudici togati (Presidente e vice presidente) non hanno voglia di far capire questo ulteriore elemento. E non saranno certo le Corti popolari, con l‘immediato sentimento che esprimono a sopperire a questa omissione visto che per loro sarà facilissimo confondere, tranne rare eccezioni, la reazione emotiva che sorge in loro dall’impatto con espressioni forti di un pensiero non convenzionale, con l’accusa che viene formulata contro gli imputati.  Sarà mai in grado una Giuria popolare di comune cultura, non credere che le espressioni di “fanatici musulmani” che nel loro linguaggio comune parlano di “miscredenti”, di “vendetta di Dio”, di vili Americani ed Occidentali, che certa gente è colpevole di tutto quello che la si accusa.  Interesserà mai ad un membro della giuria popolare sapere che Cassazione precisa che il pensiero, forte e grave che sia non ha rilevo se non come un elemento indicativo che deve però trovare conferme almeno in un minimo di capacità offensiva e di azioni? E se la presidenza, nella decisiva fase di elaborazione della sentenza in Camera di Consiglio, non avrà alcun interesse a suscitare questo argomento che non può fare altro che complicare le cose ove si vogliano scorciatoie verso una condanna ne’ a confermarne la giustezza ove fosse stato trattato dalle difese, quale può essere l’esito se non una condanna?

Questo secondo passaggio, cioè la dimostrazione che, gli imputati, dal pensiero e dal sentimento sono passati ad azioni concrete penalmente rilevanti nel verso dell’accusa di terrorismo, non viene quasi mai fatto perché rischia di sollevare il velo e di relativizzare la prima parte del discorso; quella per la quale non serve altro che il “pericolo generico” che può risultare sufficientemente dimostrato dalla forza di certe espressioni motive tipiche del linguaggio degli imputati e della loro cultura.  Lo sforzo delle difese di richiamare l’attenzione su questo fatto diventa soltanto un esercizio dialettico che le giurie popolari interpretano come un espediente difensivo. Nel comune sentire popolare, infatti, che altro può servire, per condannare magari all’ergastolo una persona che qualifica la propria cultura ed i propri sentimenti in termini che suscitano reazione?  Se si ascolta cosa invocato tante persone alla semplice notizia che un arabo accusato, magari falsamente come pure ci è capitato, di aver in qualche modo imposto il velo ad una moglie, ci si può ben rendere conto quanto poco basti in un processo per il 270 bis per convincere una giuria popolare che il gruppo di imputati va condannato anche soltanto per le espressioni che usa nelle sue conversazioni.

Questo per capire il valore che possano avere le raccomandazioni della Cassazione, quando vengano fatte e non siano anzi di tono tale da incoraggiare l’atteggiamento contrario alla prudenza, in questi processi, una volta che sia stato creata una tipologia di reato come l’art. 270 bis e seguenti.

Insomma, la prova che gli imputati usano un certo linguaggio, si interessano di conoscere gli esiti delle guerre in corso, accedono ad internet a siti vicini alla resistenza irachena ed afgana, esprimano sentimenti e desideri di potersi un giorno unire a quelli che “difendono la fede”, viene già identificato con la seconda fase, quella del passaggio all’azione; ed allora non resta più nulla da provare.

Tuttavia, nonostante queste agevolazioni, lo sforzo dell’Accusa di far anche soltanto capire che cosa concretamente gli imputati avrebbero fatto di “terroristico”, soprattutto in relazione alle finalità ed alle intenzioni che vengono attribuite a certi comportamenti accessori rappresentati da quelli che vengono definiti i “reati fine” (documenti falsi, favoreggiamento dell’immigrazione, truffe, contraffazione di C.D. ecc.) almeno certe volte era veramente titanico; ma riesciva quasi sempre perché le Corti sono sovrane e le censure di legittimità non possono raggiungere il merito.  Così si è verificato e continua a verificarsi il paradosso che, anziché diventare titanico lo sforzo di provare la colpa, il dolo, diventa titanico quello di evidenziare l’inconsistenza delle accuse, proprio per il ruolo confusionario che viene fatto svolgere al pensiero ed al sentimento degli imputati, in presenza di un’evidenza carenza di azioni veramente penalmente rilevanti, tanto da rende inestricabili i fatti dai sentimenti, dalle espressioni emozionali e dalle idee.  E d’altra parte, un ragionamento contorto fatto da una sentenza per motivare la condanna fa storia e diritto mentre un ragionamento logico della difesa rimane nell’alea delle chiacchiere e relegato nel ruolo formale dei tentativi difensivi.

Tutte queste considerazioni avevano un senso fino a qualche tempo fa allorché, nel silenzio più completo, veniva approvato un nuovo titolo di reato con il quale sono state definitivamente aperte le porte verso una serie di divieti assoluti che la stragrande maggioranza della popolazione ma anche degli operatori del diritto ancora adesso ignora.  Con queste innovazioni diventano perfettamente inutili tutti i distinguo svolti sin qui.  Ci spiegheremo.

Abbiamo evidenziato come il 270 bis e la giurisprudenza di legittimità, pur nella loro formulazione più estremistica, imponevano ancora che la “pericolosità” fosse inerente non già all’idea ed al pensiero in se stesso, portati dagli imputati; tanto meno al sentimento ma richiedeva un minimo di potenzialità offensiva tradotta in un minimo di azione; in un minimo di “progettualità”. E questo, diceva Giurisprudenza, in quanto diversamente si colpirebbero espressioni del pensiero che, pur se estremistiche e persino antidemocratiche, trovano garanzia proprio nella natura stessa di un sistema democratico. E si precisava che, proprio questo, costituisce la differenza tra un sistema democratico ed un sistema autoritario che, al contrario, vieta e punisce anche la semplice apologia intesa anche soltanto come la condivisione ideale o sentimentale di un’ideologia o di una metodologia violenta, senza con ciò istigare ad imitarla, a praticarla o impegnarsi ad imporla in qualche modo. Si invitava inoltre a tenere distinto il contenuto ideologico dalle applicazioni aberranti per la sua affermazione che qualcuno potrebbe farne, inquinando e compromettendo così il contenuto stesso in modo da criminalizzare anche quello, laddove esso può apparire “rivoluzionario” in senso filosofico ma non di violenza pratica. In un contesto di estremismo islamico questo significava che bisogna essere attenti a non colpire, con la scusa del “pericolo islamico” o del “terrorismo islamico” l’Islam quale forma di Spiritualità e quale Religione.[1]

Nonostante l’onere di verificare rigorosamente se la soglia tra il pensiero e l’azione è stata superata, i fatti hanno dimostrato che era in realtà molto più semplice arrivare a concludere che soggetti fortemente coinvolti emotivamente ed ideologicamente in certi argomenti, soggetti fragili socialmente ed socialmente emarginati, potevano benissimo essere colpevoli di ciò di cui li si accusava. Tanto bastavano pochi elementi concorrenti nella loro vita: sfoghi, atteggiamenti, desideri, espressioni verbali tra il mistico e l’esaltato: una vera manna che si presta a fornire materiale ed occasione di copertura di quelle falle che certe ricostruzioni relative ai principali episodi di “grande terrorismo stragista” hanno lasciate aperte.

Fin qui poteva dirsi che l’art. 270 bis aveva due anime grazie alle quali, opposizione e maggioranza, falchi e garantisti, furono d’accordo nell’approvarla: i primi, consapevoli che una volta aperta la soglia di un articolo così ambiguo, ci avrebbero pensato le Procure e le Corti di merito a superare lo scoglio del passaggio tra il pensiero e l’azione allorché la tensione e la paura fossero alimentate da un adeguato supporto mediatico e da puntuali episodi di terrorismo; i secondi, rassicurati dal fatto che, la soglia di garanzia, era rappresentata dalla barriera che separa il pensiero dall’azione e che pertanto rimaneva garantita la libertà di pensiero e veniva punita soltanto l’effettiva potenzialità terroristica legata all’azione. Anche se i secondi si illudevano ed i fatti dimostravano quanto fosse facile far confondere i due piani nell’applicazione concreta, tuttavia la distinzione di principio restava nell’anima stessa della norma ove correttamente interpretata ed ove ci fossero ancora Corti che volessero svolgere verifiche rigorose senza pregiudizio.

Da poco tempo a questa parte, le cose sono invece silenziosamente quanto improvvisamente cambiate.

Se questa era la posizione fino a qualche tempo fa, ormai le distinzioni  e le precisazioni che abbiamo fatto non valgono più: per quanto incredibile possa apparire, oggi è vietato anche semplicemente il pensiero e l’esternazione del sentimento ed era evidente a chi avesse un minimo di intelligenza capire che si voleva e si doveva giungere, sin dall’inizio, a questo epilogo.

Cosa intendiamo dire e come sarebbe stato possibile far passare sotto silenzio un’innovazione di tale portata?  Semplicemente attraverso uno dei soliti “trucchi dialettici” racchiusi nelle titolazioni delle leggi a garanzia dell’Ordine pubblico e della popolazione.

Nel decreto cosiddetto “Pisano” che nel 2005 inaspriva la normativa antiterrorismo è stato inserita all’ultimo momento, allorché l’aula parlamentare si era quasi svuotata e tutti ritenevano che doveva essere approvato un certo emendamento che doveva diventare l’ultimo comma dell’art. 414 del codice penale, una parola determinante. Il codice penale già prevedeva la repressione e la punizione dell’”istigazione al terrorismo” ed alla violenza; il che è fin troppo giusto ed evidente: nessun può istigare alla violenza terroristica o giustificarla fornendogli così una forza ed un incoraggiamento. Questo è di evidenza immediata a chiunque; forse persino ad un terrorista vero, qualunque sia la sua reale identità e le sue motivazioni.

Però, il “trucco nascosto” affinché potesse passarsi da questa posizione a quella che costituisce probabilmente la vera ragione occulta della normativa in questione, è rappresentato da una piccola aggiunta, fatta, come già detto, pochi minuti prima dell’approvazione.

L’art. 414 riguarda la fattispecie dell’”istigazione a delinquere” titolato “dei delitti contro l’ordine pubblico” e recitava così: ”Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito per il solo fatto dell’istigazione: 1- con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti;  2- con la reclusione fino ad un anno ovvero con la multa fino ad euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni. Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena stabilita al punto 1.  Alla pena stabilita dal n. 1 soggiace anche chi pubblicamente fa apologia di uno o più delitti.”.

La previsione dell’”apologia” esisteva dunque già dai tempi in cui dilagava il cosiddetto “terrorismo rosso e nero” ed aveva già suscitato molte reazioni in quanto si riteneva un pericoloso potenziale di repressione antidemocratica contro la libertà di pensiero e la Corte Costituzionale aveva infatti stabilito già nel 1970 (sent. N. 65) che l’unica “…apologia punibile ai sensi dell’art. 414 è quella che, per le sue modalità, integra un comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti, trascendendo la pura e semplice manifestazione del pensiero”.

L’emendamento aggiunto nel 2005 in occasione dell’approvazione del decreto “Pisano” riguardava un ulteriore comma che recitava così: ”Fuori dai casi di cui all’art. 302, se l’istigazione di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà”.  Non è questa estensione che possa stupire visto che il problema è tornato di attualità con il vero o presunto “terrorismo islamico”.

Quel che è inquietante e significativa è la parola aggiunga all’ultimo momento alla frase; vale a dire “o l’apologia”, sicchè la frase diventa: “Fuori dai casi di cui all’art. 302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà”.

Ora, applicata in concreto questa parola, alla luce delle scorciatoie dimostrate nell’applicazione del 270 bis, può diventare, e di fatto diventa, una censura contro qualunque atteggiamento di rifiuto e di negazione dei “fatti notori” e delle versioni convenzionali del potere.

In poche parole, questa frase aggiustata con la parola aggiunta, diventa un potenziale utilizzabile al momento che si riterrà opportuno, e non soltanto per sanzionare e punire la “giustificazione del terrorismo” in una qualsiasi forma anche costituita dal semplice sforzo di spiegarlo, di evidenziarne le cause storiche, sociologiche, politiche, ma, cosa più probabile e pericolosa, per colpire chi negasse il fenomeno in se stesso prospettandosi di evidenziare le possibile, differenti alternative circa i dirigenti del terrore, la fonte dalla quale derivano e nella quale si annidano; in una parola, circa i soggetti reali del fenomeno “terrorismo islamico”, gli esecutori ed i mandanti reali di quelle stragi attribuite a gruppi e sigle evanescenti rivelatesi troppo comode alla strategia di guerra, alla globalizzazione di controlli e delle legislazioni, all’occupazione di territori strategici.

In parole povere “apologeta del terrorismo” e “terrorista” può diventare non già chi esalta le gesta dei terroristi; chi le condivide; chi cerca di trovare una giustificazione se non addirittura le condivida pienamente, ma molto più semplicemente anche chi negasse; chi si permettesse di tentare di gettare luce; chi troppo invitasse a riflettere su elementi sospetti e scoperti; chi potrebbe dare l’impressione di rompere le uova nel paniere.

Un risultato del genere è sicuramente più ambito, per certe forze che lavorano per il domani e guardano lontano, di quello di colpire un effettivo idiota che, facendo realmente apologia di terrorismo ed istigazione, dimostra con ciò stesso di credere, alla stessa stregua di tutti gli altri che cadono nella trappola mediatica, che le cose sono esattamente come le “versioni convenzionali” riferiscono e come quelli che le impartiscono, vogliono che si creda.

Ed allora i veri obiettivi di certe “astuzie” viene da chiedersi chi debbono essere; chi siano mai quelli che vengono considerati “pericolosi” da certi “guardiani” non provvisori di un certo “sistema globale”.  Che pericolo può mai rappresentare per chi deve coprirsi e vuole che tutti credano esattamente la stessa cosa, qualcuno che, facendo fanatica testimonianza di condivisione, invitando anzi all’imitazione, rende esattamente il servizio che serve a chi deve coprirsi dalle responsabilità che debbono invece ricadere strategicamente su altri? Nessun pericolo, anzi un pregevole servizio; e se lo scopo era quello di atteggiarsi istrionicamente a far mostra di condivisione e di istigazione, poco mancherà che qualcuno, in un eccesso di soddisfazione di fronte a tanta disponibilità ed idiozia, non riuscendo a trattenersi gli mandi persino un biglietto dove non dovrebbe fare troppo stupore trovarvi la frase… “la C.i.a. ed associati… ringraziano”.

Ecco dunque come, certe innovazioni finiscono per evidenziarsi come l’anello di passaggio a tutta un’altra imminente serie di attacchi alla libertà di pensiero e ai sentimenti intimi, con le relative operazioni di… antiterrorismo, di controlli ed arresti a catena.

Ormai non si pone più il problema di distinguere tra pensiero, sentimento ed azione. Ormai è vietata la divulgazione del pensiero e del sentimento; l’esternazione e, ove possibile penetrare, anche il pensiero recondito se esso trova modo di esternarsi e di esprimersi in sfoghi anche momentanei, in sentimenti ed emozioni. Ormai si è capito che, una volta affermata una legislazione legge “a tutela anticipata”, tutto il resto verrà da solo.  L’istigazione potrà essere vista dai giudici di merito in ogni forma di azione, di esternazione, di pensiero. E se ciò non risultasse ancora troppo accettabile ed evidente, basterà considerare che nell’apologia, richiedendosi molto meno dell’istigazione, potrà essere fatto rientrare, all’occorrenza, proprio di tutto.

Si comprenderà benissimo che, se già con il “270 bis elaborato”  ci si poteva facilmente sottrarre all’onere di una rigorosa prova dell’avvenuto passaggio dalla sfera ideale-sentimentale a quella dell’azione realisticamente pericolosa e  “penalmente rilevante” e considerare avvenuto questo passaggio sulla semplice base di elementi tra l’inconsistente ed il grottesco, il passaggio tra una contestazione di principio del reato di “istigazione” o di quello di “apologia”, potrà avvenire sulla base dei “gusti” e delle “libere scelte” del giudicante attribuendo ad ogni minima azione, parola, frase o esternazione, con un minimo di dialettica formalmente “logica” e dunque incensurabile in fase di “giudizio di legittimità”, questo valore.

Varrà ben osservare che certe leggi e certi correttivi non sono ormai più espressive di una corrente politica, di un governo o dell’altro.  C’è ormai una “corrente mentale” che può passare attraverso chiunque ed a sua stessa insaputa tanto che, chiunque, può esserne strumento. Questo evidenzia che la fonte di ispirazione proviene da ben più lontano degli occasionali “utili idioti” che possono benissimo essere (alla maniera di tanti “ghighiottinatori-ghighiottinati” Robertspierre) le prime vittime della loro stessa “geniale” intuizione o attività.  La finalità reale di certe operazioni è infatti una consapevolezza che appartiene a pochi “ispiratori” che restano in attesa dei frutti che dovranno maturare in vista dell’Alba del Nuovo Potere Mondiale la cui guida spetterà alle poche oligarchie familiari trans-nazionali, a ciò destinate.

Dobbiamo attenderci probabilmente che non passerà molto tempo che, la consapevolezza di questa tremenda realtà sarà essa stessa posta sotto la scure della censura, nascosta nelle formule delle norme che racchiudono l’occulto potere di applicarsi a tutto quello che serve all’occorrenza.

Mettere in dubbio le versioni ufficiali e convenzionali sui fatti di guerra; supporre alternative sull’origine e sui diversi possibili mandanti ed esecutori dei fatti di terrorismo che insanguinano il mondo; criticare le condanne dei gruppi accusati di terrorismo rilevandone i limiti e i retroscena dialettici; sollevare dubbi sull’autenticità di versioni, fatti, notizie che riguardano i luoghi di guerra e che rivelano gli abusi e le truffe di certe ricostruzioni, potrà rientrare facilmente in uno di quelle forme di “istigazione”, di incoraggiamento; e se questo non sarà facilmente applicabile, potrà sempre rientrare in una delle possibili forme e varianti dell’apologia.  Quando i tempi saranno maturi anche per questa ulteriore applicazione, la fantasia di certe Corti non avrà più freno e sarà anzi incoraggiata al massimo.

Con la semplice scusa (che apparirà perfettamente giusta e logica alle grandi masse impaurite ed inebetite con ogni sorta di distrazione e di suggestione) secondo la quale ipotizzare diverse origini e motivazioni degli episodi di terrorismo, significa, in fondo, “sostenerlo”, “incoraggiarlo”, “coprirlo”, “fornire ad esso forza ed alibi”,  “sviare le energie e la forza necessaria a reprimere il terrorismo stesso”, potrà procedersi a chiudere siti, a censurare libri ed articoli come questo, procedere ad arresti per concorso in terrorismo, per istigazione, per apologia o addirittura per sostegno logistico.[1]

Questo genere di innovazioni sembrano assumere il significato di “messaggi” diretti anche nei confronti di chi si prodigasse eccessivamente nella difesa di certe categorie di imputati sul genere di quelli accusati di “terrorismo islamico”.[2]

Sarà il caso di concludere l’argomento; ma non prima di aver evidenziato il paradosso che la parola “…o apologia” che abbiamo evidenziato come l’aggiunta dell’ultimo minuto al quarto comma dell’art. 414 del codice penale non è avvenuta ad opera del Ministro dell’Interno o di qualche membro del governo Berlusconi ma, nientemeno che, dell’On. Rutelli, delegato al Controllo delle Attività dell’Antiterrorismo e su consiglio e proposta del giornalista, consulente, Magdi Allam.

E così tutto può ritenersi finalmente quasi completamente compiuto.


[1] Un piccolo esempio apparentemente paradossale dell’orizzonte cui potrebbe arrivare una simile posizione: viene affermato che i Palestinesi che colpiscono con sassi o che “notoriamente” lancerebbero razzi su Israele, sono “terroristi”.  Chi sostenesse il contrario ed affermasse che questo non è terrorismo, potrebbe essere accusato di “apologia”; e se una Corte dovesse mandare assolti gli imputati di questo reato, “qualcuno”, scontento di ciò, potrebbe essere incentivato a cercare collegamenti operativi magari facendo valere che si è mandata un’offerta ad una famiglia di orfani palestinesi ricamando su questo una forma di sostegno logistico e di solidarietà non soltanto umana. Ma potrebbe cadere sotto la stessa accusa anche chi mettesse in dubbio che quei razzi, data peraltro la loro quasi inoffensività pratica, sono lanciati veramente da Palestinesi e non siano invece occasioni per giustificare sotto l’apparenza di una rappresaglia, tappe militari di più vasta portata e diversa natura.

Questo è soltanto uno degli almeno cento esempi, peraltro forse tra i meno probabili ma non escludibile, che potrebbero essere indicati quale effetto della “norma-trappola” che è ancora soltanto l’inizio di una serie di censure che noi abbiamo indicate già sin dalla prima edizione dello studio che abbiamo pubblicato sul “Terrorismo islamico” in generale e sui vari processi in particolare.

Se si pensa poi che è in corso un’indagine per chiudere i siti che all’esame della “polizia postale” e dei servizi di sicurezza sembrassero essere pericolosi per il fatto che sostengono scomode tesi di controinformazione, non convenzionali ed anticonformiste (in ciò rientrando persino certi siti di “medicina alternativa” che criticano le terapie a base di chemio che rivelano i colossali profitti delle multinazionali farmaceutiche ed i trucchi usati attraverso le formule dei “marcatori” di malattie e degli indici di rilevamento) si comprende la gravità e la portata dell’operazione. Ovviamente l’operazione viene mascherata con titolazioni che in se stesse sono ovvie e positive come ad esempio “siti antisemiti”, “siti di supporto o di giustificazione al terrorismo” per cui non è dato di comprendere la manovra generale che si annida dietro essendo fin troppo evidente che un sito terrorista o di ispirazione all’odio antisemita vada censurato. Il fatto è che, dietro questa espressione, si cela quasi sempre un’informazione alternativa e non gradita al sistema o a certi gruppi del “potere reale” ed equivale pertanto a bloccare ogni diversa informazione e consapevolezza che non sia quella elargita alle masse secondo un piano di controllo e di omologazione globale del pensiero, dei sentimenti, dei gusti e persino… delle reazioni che debbono essere esse stesse canalizzate in direzioni di sfogo ben precise ed innocue.  Si tratta in fondo di un’applicazione della ormai nota strategia di potere anglosassone, della cosiddetta “politic correct” con la quale anche l’opposizione viene tenuta nei canini di un controllo che non deve consentire alcuna reale alternativa ne pratica ne’ tanto meno ideologica.  Su ciò vedasi l’interessante studio di Alfredo Tirelli: “I serpenti della dialettica”.

[2] Prima che l’attenzione si concentrasse nei riguardi dell’Islam, un’operazione analoga anche se di portata ben più ridotta si era svolta nei confronti di un certo modo di fare politica che apparteneva alla sinistra attiva. Nella consapevolezza che certi “messaggi” agiscono più delle minacce dirette e della repressione, già il 272 c.p. aveva di fatto previsto la repressione della propaganda per l’instaurazione violenta della lotta di classe e a questo si era aggiunto l’art. 415 c.p. “istigazione a disobbedire alla legge” dove si precisava che “chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni”. Anche qui è ovvio che la presentazione di facciata di certe norme è evidentemente giusta. Il problema è che quando il “sistema” si corrompe, la parola che rende lecita la norma (nel caso specifico “odio di classe”) cessa la sua funzione discriminatoria in senso positivo e si verifica il caso che, qualunque abuso compiuto violentando fatti e parole, possa essere compiuto nell’applicazione di questa norma.  Al di la di questo effetto “processuale”, simili normative producono l’ulteriore e ben più vasto effetto generale di un’inibizione del pensiero che manifesta i suoi risultati in quel fenomeno che è la scomparsa delle ideologie, quale è dato oggi di vedere nello scenario intellettuale e politico, senza neppure che questo processo sia, nei più, pienamente cosciente.  Questo è avvenuto, relativamente ad un certo linguaggio della sinistra attiva, nonostante la stessa Corte Costituzionale  sul punto abbia dichiarato nel 1974 l’incostituzionalità dell’articolo nella parte in cui non specifica che  “..l’istigazione all’odio tra le classi sociali deve essere attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità”.

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